C’è vita su Marte… se magari la portiamo noi

Sono decenni che cerchiamo di capire se su Marte, il cosiddetto pianeta rosso, possano esserci o meno delle forme di vita. Ed è per questo che ci affanniamo a cercare a tutti i costi gli indizi per eventuali forme di vita già presenti, e non solo su Marte (addirittura esiste un’equazione per stimare il possibile numero di forme di vita intelligenti viventi nell’universo e potenzialmente in grado di comunicare con noi). E se invece non ci fossero forme di vita, ma soltanto le condizioni adatte all’insediamento di essa, nonostante il senso comune ci suggerisca il contrario? Marte non è certo un pianeta ospitale come la Terra, ma niente esclude che una qualche specie già vivente sul nostro pianeta possa insediarvisi e sopravvivere. E se magari tale specie l’avessimo già portata proprio noi involontariamente, ad esempio a bordo di Curiosity o di altre missioni spaziali? 
Marte, il “pianeta rosso”
Da uno studio recentemente pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, sembra che una specie batterica, che vive praticamente ovunque, dalla pelle umana alle radici vegetali, sia potenzialmente in grado di sopravvivere in un ambiente estremo come quello marziano. Non si tratterebbe nemmeno di una specie batterica estremofila, ossia una di quelle che generalmente vivono nei luoghi più ostili della Terra, che sono anche le più studiate e ricercate dagli astrobiologi perché considerate le più papabili candidate a sopravvivere sul pianeta rosso. Serratia liquefaciens ha invece abitudini di vita generaliste, vivendo in ambienti acquatici e terrestri, ed è diffusa praticamente ovunque. 
Nel tentativo di comprendere fino a che punto in futuro potremmo “contaminare” Marte con la nostra carica batterica, un gruppo di microbiologi guidato da Andrew Schuerger della University of Florida ha allestito alcuni esperimenti. 
Serratia liquefaciens
in capsula di Petri
I ricercatori hanno lavorato su 26 ceppi di 22 tipi di batteri recuperati da veicoli spaziali, che potrebbero pertanto essere in teoria i più probabili passeggeri per un eventuale trasloco marziano; ne hanno fatto sviluppare colonie in laboratorio e ne hanno verificato la capacità di sopravvivenza a livelli di temperatura, pressione (7 mbar, contro i circa 1000 della Terra) ed ossigeno molto bassi ed anidride carbonica elevati, quali quelli presenti sul pianeta rosso. Molti ceppi non hanno resistito, mentre Serratia liquefaciens è stato in grado di sopravvivere a tali condizioni proibitive. E’ curioso che invece non siano sopravvissute 2 specie batteriche notoriamente estremofile!
In un altro studio, pubblicato precedentemente, Schuerger ed i colleghi hanno focalizzato l’attenzione su ceppi batterici recuperati in profondità dal permafrost siberiano. Dal momento che l’acqua su Marte è presente soprattutto allo stato solido, gli scienziati hanno pensato di mettere tali specie batteriche nelle condizioni di temperatura e pressione marziane, in modo da stimarne le capacità di sopravvivenza. Le uniche sopravvissute sono state 6 e tutte appartenenti al genere Carnobacterium.
Se questi studi possono confermare la grande capacità di adattamento di alcuni batteri a condizioni ambientali per noi proibitive, non possono tuttavia garantire l’effettivo insediamento e conseguente sopravvivenza degli stessi microrganismi su Marte: uno dei principali ostacoli contro la colonizzazione può essere rappresentato ad esempio dalla radiazione cosmica, alla quale i ceppi batterici potrebbero non sopravvivere, ma sicuramente le loro straordinarie ed inattese “capacità estremofile” li renderanno oggetto di ulteriori e più approfonditi studi.
Schuerger AC, Ulrich R, Berry BJ, & Nicholson WL (2013). Growth of Serratia liquefaciens under 7 mbar, 0°C, and CO(2)-Enriched Anoxic Atmospheres. Astrobiology PMID: 23289858
Nicholson, W., Krivushin, K., Gilichinsky, D., & Schuerger, A. (2012). From the Cover: Growth of Carnobacterium spp. from permafrost under low pressure, temperature, and anoxic atmosphere has implications for Earth microbes on Mars Proceedings of the National Academy of Sciences, 110 (2), 666-671 DOI: 10.1073/pnas.1209793110

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

WhatsApp
Telegram
Pinterest
Pinterest
fb-share-icon
LinkedIn
LinkedIn
Share
RSS
Ricevi post via email