Chiarito il meccanismo che consente l’attività degli autofagosomi cellulari: un aiuto contro il cancro?
Affinché ciò possa accadere, è indispensabile che particolari molecole fungano da attivatori degli autofagosomi, ed è infatti proprio sul ruolo di alcune proteine specifiche che si è concentrata la ricerca di un team di scienziati dello The Scripps Research Institute (TSRI), il cui lavoro è stato pubblicato sulla rivista Nature Structural & Molecular Biology. In particolare, la corretta formazione degli autofagosomi è innescata da una proteina-chiave, la LC3, capace di attaccarsi alle molecole lipidiche della membrana degli autofagosomi, ma soltanto grazie alla presenza di altre 2 proteine, ATG12 e ATG5, opportunamente legate tra loro. Ciò che invece s’ignorava, era il motivo per cui tali proteine dovessero essere essenziali ai fini della formazione degli autofagosomi, e così gli scienziati hanno cercato di indagarne le motivazioni ed il modo in cui ATG12 e ATG5 consentono la formazione degli autofagosomi, di vitale importanza per il corretto funzionamento delle cellule.
Otomo ed il suo team sono stati in grado di determinare la forma del coniugato ATG12-ATG5, grazie alla cristallografia a raggi X, ed hanno scoperto che, quando le proteine sono unite, consentono l’interazione autofagosoma-LC3 perché formano un’impalcatura rigida ed espongono una superficie fatta da specifici aminoacidi, che l’evoluzione ha preservato per la delicata peculiarità nel funzionamento di questo meccanismo. Alterando la composizione di tali aminoacidi, gli scienziati hanno osservato che si interrompe il processo di formazione degli autofagosomi e, di conseguenza, la loro attività. Inoltre, i ricercatori hanno anche scoperto un’altra superficie sul complesso ATG12-ATG5, che consente il legame con ATG3, un enzima indispensabile affinché LC3 possa unirsi alle molecole lipidiche degli autofagosomi.
Alla luce di queste scoperte, i ricercatori sperano di realizzare molecole in grado di inibire o interferire con la formazione di autofagosomi, perché ciò potrebbe colpire il regolare funzionamento di cellule cancerose e, quindi, contribuire a ridurre lo sviluppo di alcune patologie grazie a dei trattamenti mirati. Se infatti una cellula cancerosa viene colpita in maniera efficace nella sua “macchina lisosomiale”, essa sarà sicuramente meno efficiente nel prolungare la propria sopravvivenza, perché privata della possibilità di attuare un corretto “riciclaggio e riutilizzo” delle sostanze di scarto. Speriamo che questo studio possa avere un seguito significativo e produttivo.